Pandelìs Bukalas
Penelope
Lui nel suo mondo aperto
tra i suoi omicidi e le gozzoviglie
tra intrighi e assalti
– a tramare, sempre a tramare,
il senza ritorno.
E tra le sue donne,
mica una o due.
Tutte a soccorrere il poveraccio –
quasi che l’esilio lo avvelenasse
e fosse in balìa del mare.
A seminare bastardi, ché non scompaia la sua stirpe.
Macché moli
macché rimedio divino
contro le magie di Circe.
Superfluo.
Il maiale non si trasforma in maiale.
Lo è già.
Perfino agli inferi è sceso
pur di ritardare.
A imparare, dice, dalle ombre dei morti.
Palamede, lui,
non l’ha mai interrogato né visto.
Aveva mica fegato, il divino,
per sopportare il sangue di chi ha subìto l’ingiustizia.
E io chiusa, reclusa,
con un moccioso che mi striscia ai piedi,
tutto il veleno del mondo striscia
come un serpente a divorarmi.
Allora decisi di mettere in pratica
ciò che la loro perfida lingua
pronunciava.
Questa la mia perfidia.
La mia trama.
Una notte conquistarono tutti
il mio corpo vuoto,
che, impartecipe, ingannava la fame dei pretendenti,
i loro fiati puzzavano di vino e di sconfitta.
Pan venne, nacque.
Nel suo nome era nascosta
la mia vendetta fredda, gelida,
come io, per vent’anni,
mi nascondevo nel mio nome
a tessere, a disfare il mio rifiuto,
io, la rifiutata.
Un giorno ritornò, il satollo,
e non si sognò neppure di cercare
il neo sui miei seni
né l’ulivo del letto.
Queste cose le dicono i poeti.
Ma come può avvertire il dolore di una donna
o angustiarsene, lui, l’estraneo.
Traduzione di Nicola Crocetti
Poesia n. 298 Novembre 2014
Pandelìs Bukalas. Dal Mito alla Storia
a cura di Massimo Cazzulo e Nicola Crocetti