Cristina Sparagana
Aubade
Chi ride inquieto nelle bianche sale?
È il giorno, il giorno, quello che sottile
come una grande palpebra di luce
chiude l’occhio alla notte e incenerisce
in un rogo d’allodole il cuscino,
vela il grido turchino all’estenuato
primogenito sorto dalla culla
come da legno di naufragio, stride
contro il fiore vermiglio che la luna
aveva estinto con sudate mani
in materno sussulto e pioggia lieve,
getta per terra l’uomo del tramonto
e la crosta di pane del suo cuore.
L’usignolo marcisce, la campana
sveste l’abito oscuro, si dimena
nella fragile trappola del vento
come un’enorme lepre solitaria,
eppure in corsa per il bosco immenso
di coloro che il lampo del mattino
folgorò alle radici mentre quiete
inseguivano i morti senza voce,
i loro ardenti pacchi di natale,
i delicati schiaffi di mimosa.
Chi ride? È il corvo che la preda ansiosa
cupa smarrisce al margine del guanto
nel breve istante in cui l’urlo del sole
vibra feroce al sommo della torre
col festoso cimiero tempestato
di galletti di rame, e gronde dure
pronto a cogliere al volo la sua palla
di lenzuola terribili, sicure,
lui la noce di cocco che sul cedro
del nuovo giorno picchia senza posa
quale umida fronte di un malato
sul piombo pallido dell’ospedale.
Eppure appena un’ora prima come
si bruciavano i cani al focolare,
quante mani ghiacciate, quanti odori
di cucine selvatiche e di sonno,
quante piccole raffiche di croci
e d’occhi rossi stretti fra le dita
in scongiuro e tremore, somiglianti
a una goccia di sangue che si spegne
tra sbucciatura e fragile cerotto.
Ed ecco, il piccolo ginocchio rotto
si è annullato su un ramo di cipresso
come un fiore appassito. Ora sappiamo
che siamo infine duramente desti
e che la grande palpebra del giorno
ha velato la luce della notte,
con il suo tetro sfolgorio di siepe.
Io sono Arnaldo che raccolgo il vento
e col bue vado a caccia della lepre.